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INTERVISTA A CLAUDE DELANGLE

Giuseppe Laterza

G.Laterza: Salve signor Delangle, quando ha scoperto la sua passione per il sassofono?

C.Delangle: Ho iniziato a studiare musica alle scuole elementari con un musicista di varietà. Dopo due anni, il maestro inviò una lettera ai miei genitori dicendo che dovevo studiare musica perché avevo “orecchio”. I miei genitori, che non erano molto ricchi, non esitarono a iscrivermi all’età di 8 anni (1965-1966) al conservatorio del quartiere storico di Lione; era l’epoca della realizzazione del piano Malraux, momento di grande democratizzazione. All’epoca l’iscrizione costava 50 franchi all’anno e il mio primo sassofono fu comprato facendo credito.
Mio padre, melomane abbonato all’opera e amante dei dischi, aveva l’obiettivo di fare di me un violinista, cosa che a me non piaceva molto. Fortunatamente, ero troppo grande secondo i criteri di valutazione dell’epoca per cominciare uno strumento a corde; dunque mi orientarono verso gli strumenti a fiato, che a me piaceva, perché volevo “soffiare” in qualcosa. Sono stato sedotto dal sassofono ed ho frequentato il conservatorio, indirizzato dal direttore della sezione di quartiere ed ex-maestro di banda militare. Ho scelto il sassofono senza nessuna ragione obiettiva, ne conoscendo il suo repertorio.

GL: Quali sono stati i sassofonisti che hanno più influenzato il suo percorso di studente?

CD: Quando ero piccolo, dai 9 ai 15 anni, essenzialmente fui influenzato dal mio insegnante perché non avevo molte occasioni di ascoltare altri sassofonisti; c’erano pochi concerti di sassofono all’epoca, non c’erano per niente creazioni contemporanee e nella mia famiglia non ascoltavamo jazz. Il mio percorso è stato, dunque, poco influenzato dal jazz ed è una piccola parte della mia cultura. Ovviamente, sono aperto a questa musica e l’improvvisazione mi ha affascinato molto presto, ma è stato in seguito che l’ho scoperta.

Successivamente, fui influenzato da alcuni dischi che comprai; di Mule per esempio, ma di cui in realtà non c’era molta scelta. Non era esattamente il tipo di sassofono che avevo nell’orecchio, infatti già quand’ero bambino questa maniera di suonare per le mie orecchie era quasi comica. Era bella, riconoscevo la virtuosità straordinaria, la bellezza del suono, ma era già un po’ singolare per me, era strana. Ho ascoltato il quartetto Deffayet, ho ascoltato Londeix, soprattutto nei suoi dischi di musica da camera.

Mi sono piaciuti molto e penso che mi abbiano molto influenzato: ascoltare lo strumento in un contesto realmente musicale e non solamente solistico, con altri strumenti, mi impressionò davvero.

È al conservatorio di Parigi (sono entrato molto giovane all’età di 18 anni) che diventai amico di alcuni compositori. Scoprii la musica concreta al GRM con Denis Dufour; fu molto interessante e grazie a Etienne Rolin scoprii Anthony Braxton.
Per me fu una vera scoperta, sembrava un sassofono matto; ascoltavo sonorità che mi interessarono davvero e che trovavo formidabili tecnicamente dal punto di vista della ricerca strumentale e nel contesto dell’improvvisazione.

GL: Che cosa ha rappresentato per lei, da insegnante, succedere al conservatorio di Parigi a figure come Adolphe Sax, Marcel Mule et Daniel Deffayet?

CD: Avevo trentadue anni quando sono stato nominato insegnante a Parigi. Avevo già l’esperienza acquisita al conservatorio di Angoulême e al CNR di Boulogne-Billancourt. All’epoca, a questa età, si era troppo giovani per un posto così prestigioso. Ho avuto la fortuna molto presto, a vent’anni, di servire la musica contemporanea grazie a Pierre Boulez che, nel 1986, dopo avermi ascoltato mi ha invitato a partecipare all’avventura dell’Ensemble Intercontemporaine. Penso che la mia attività insieme a Pierre Boulez abbia contato per la nomina ad insegnante e certamente anche nella mia formazione professionale.
Con l’intercontemporaine, suonavamo il quartetto di Webern, pezzi di Philippe Hurel, tanto repertorio di Berio, tra cui il suo concerto per violoncello e quello per pianoforte; ed è vero che c’era un’esigenza di sonorità e di ascolto ad un livello straordinario. Durante i miei studi non avevo avuto la possibilità di studiare musica da camera a questo livello di esigenza. Ho partecipato per una decina d’anni a l’ensemble, ho incontrato tanti compositori ed è stato veramente molto formativo.
Tutto questo ha influenzato enormemente la pedagogia dei miei primi anni di insegnamento al conservatorio di Parigi.
Boulez era un pedagogo e infatti si comportava quasi come un professore, spiegava le cose; dava le ragioni stilistiche, era molto preciso e allo stesso tempo molto semplice; solamente vederlo dirigere era per me un insegnamento pedagogico. L’insegnante dà una direzione musicale che tiene conto della cultura e dell’energia dell’allievo. Il rapporto con l’ensemble è stato importante nella mia scelta di repertorio, di maniera un po’ eccessiva forse ma in ogni caso mi ha aiutato molto.
All’epoca, alcune mancanze di professionalità nel mondo del sassofono mi rattristavano: intonazione, precisione dell’emissione, controllo del vibrato, degli armonici ecc. Oggi invece, c’è una professionalizzazione straordinaria, ognuno suona secondo il proprio stile, secondo la sua cultura e il suo repertorio.
C’è un’esigenza ad un più alto livello in quasi tutti i paesi e il mondo musicale sa cosa vuol dire “suonare bene” il sassofono.

GL: Quali sono state e quali sono le sue priorità da insegnante?

CD: All’epoca dei miei studi, l’insegnamento si faceva esclusivamente con il sax alto, per tecnica e repertorio. Era fatto di proposito. Facevamo poche cose ma con molta esigenza e rigore, sia per la tecnica di base che per il repertorio. Gli allievi più bravi erano avvantaggiati, i meno bravi venivano tartassati. Ho aperto la strada all’ensemble di sassofoni che ho integrato nel corso di studi; propongo molta musica da camera, in quartetto, ma è l’insieme del conservatorio che è completamente cambiato e che si è ampiamente allargato. Il livello strumentale è cresciuto e oggi la trasversalità ci da tanto. Per esempio: il corso di tecnico del suono, l’accesso a nuove tecnologie, il lavoro con l’informatica , la mediazione e l’interazione con altre discipline artistiche; inclusa la danza che è cosi vicina a noi.
Ho aperto la mia classe il più possibile al mondo internazionale, lavorando e collaborando con altre istituzioni; il nostro conservatorio (CNSMDP) è un trampolino straordinario che promuove la creatività e il proprio percorso professionale.

L’integrazione all’insegnamento artistico, secondo lo schema LMD universitario, apporta delle risposte ma genera anche qualche difficoltà aumentando la durata degli studi.
Al master, abbiamo studenti abbastanza grandi che hanno una personalità già affermata. È un bene, ma spesso questo diventa il freno nella loro ricerca e nel loro sviluppo artistico; hanno già una reputazione da difendere e qualche volta, mancano di flessibilità nel rimettersi in questione o nell’assumersi dei rischi artistici.
D’altro canto, gli studenti che si dedicano a frequentare il terzo ciclo d’insegnamento superiore, sia per il dottorato di ricerca, sia d’interprete (DAI) affrontano un vero e proprio progetto.
È il profilo di un nuovo studente. Al temine degli studi, il percorso dovrebbe incitare tutti i musicisti a diventare e restare durante la propria carriera dei ricercatori!

GL: Lei è uno degli insegnanti più amati ed ammirati, qual è il suo rapporto con lo studio quotidiano dello strumento?

CD: Oggi sento più che in passato l’importanza della qualità nelle relazioni personali con gli altri. Se è facile avere una buona relazione con allievi “di passaggio”, che sono felice di incontrare e di consigliare durante i miei viaggi o nei corsi di Gap all’università del sassofono, resta paradossalmente più difficile il rapporto con persone avviate ad un percorso completo al CNSMDP. È la ragione per la quale sono molto attivo nel rinnovamento della forma pedagogica e nella diversità dei progetti proposti. Il mio obbiettivo, non sempre rispettato, è di evitare la monotonia delle lezioni settimanali ripetitive e la stanchezza che possono indurre. Stabilire e mantenere una relazione personale appagante porta generalmente ottimi frutti per l’allievo, in termini di fiducia e di integrazione nella vita professionale. Il fatto di diventare adulti apporta ad un atteggiamento di fiducia, sereno e amicale, più naturale.
Ho avuto dei buoni risultati ma, ahimè, qualche volta sono passato totalmente al di sopra dell’aspetto relazionale. Con alcuni allievi non ha funzionato, non ho legato sul piano musicale e forse neanche su quello umano; è il mistero della vita e delle relazioni umane. Con l’avanzare dell’età si ha solamente voglia di essere felici con gli allievi e inevitabilmente tutto va meglio. Quando si abbandona la volontà di arrivare ad ogni costo ad un rapido risultato, il risultato a volte arriva più lentamente del previsto ma spesso migliore! È una questione di fiducia verso gli altri e verso se stessi. Se potessimo sviluppare questo tipo di relazione basata sulla fiducia, già nei primi anni di carriera, sarebbe straordinario: accettare fasi calanti provvisorie e lavorare maggiormente sulla motivazione e la voglia più che sull'obbligo; è questo l’ostacolo dei giovani insegnanti...di cui ho fatto parte.

L’esperienza mi ha sempre dimostrato che le situazioni si sbloccano quando accetto la situazione con tranquillità, quando lascio che l’allievo prenda le sue responsabilità. Un linguaggio duro a volte è utile, ma ha i suoi limiti. Se si parla come si parlasse ad un amico le cose cambiano, la pressione cade…anche se talvolta risulta utile, ma non sempre! Una relazione amichevole è importante, ma non significa nemmeno diventare “compagni”, dunque non ci si da una “pacca” sulle spalle. Mi aspetto un atteggiamento rispettoso dagli allievi. A volte, mi da fastidio e non tollero che gli allievi entrino durante la lezione o che si occupino delle loro e-mail durante la lezione dei propri colleghi; certo, si possono prendere appunti con il telefono. È vero che sono un po’ rigido ma al tempo stesso amo essere amichevole.

La relazione con gli allievi, la maniera di fare lezione e l’atteggiamento verso la musica sono totalmente legati. Un atteggiamento troppo rude con se stessi genera inevitabilmente un atteggiamento rude anche con gli allievi e con la musica.

Durante il mio studio quotidiano se sono un po’ stanco o se mi distraggo, mi fermo! Da giovani si sente di poter forzare e studiare fino allo sfinimento, ma quando si è più adulti funziona meno bene! Si conoscono meglio le proprie capacità di apprendimento e si gestisce meglio il tempo. Mi capita di studiare per poco tempo, mezz’ora o ¾ d’ora; è di grande efficacia per imparare o per far passare un qualcosa dal «disco rigido» alla «memoria viva». Un nuovo pezzo ha bisogno di tempo per passare nella memoria profonda (disco rigido). Ma ovunque si trovi, non necessariamente lo si ha già “nelle dita” (memoria viva). Il Concertino da Camera di Jasques Ibert è l’esempio perfetto di questo tipo di repertorio che conosciamo a memoria e per il quale bisogna trovare un personale metodo appropriato per non cacciarsi nei guai sul palcoscenico! Per questa ragione c’è bisogno di tempo e di calma. Non serve a niente imparare con tensione; io imparo se sono contento. La memoria integra velocemente ciò che ci piace… se mi inizia ad annoiare, smetto di studiare.

Non sono un buon insegnante e la ricerca di riconoscenza non mi riguarda più. È sicuramente su questo punto che si colloca una forma di impossibilità ad insegnare come un giovane insegnante alla ricerca di risultati immediati. Il problema dell’efficacia è da rimettere in questione laddove sia prevista a breve termine; a lungo termine, si, siamo pagati per fare questo! Che cos’è veramente importante? Qual è l’obbiettivo finale? Che gli allievi diventino degli ottimi professionisti? Che amino la musica e la divulghino? Che siano brillanti ed entusiasti? Per 5 o 10 anni? Per tutta la loro carriera? Inseriamo nella formazione la dimensione della crescita personale attraverso la musica, lo strumento, il repertorio, il piacere di scoprire. Il problema della ricerca è fondamentale. Se non si è ricercatori e non si è curiosi inevitabilmente l’attività professionale sarà sopraffatta dall’insoddisfazione. Rinnoviamo il repertorio, le tecniche, la formazione musicale, i gruppi di musica da camera e sperimentiamo delle nuove soluzioni. Una classe è paragonabile a una famiglia dove a ogni età si rinnovano le relazioni. Essere il padre di un bambino di due anni o di venti non è la stessa cosa. Lo stesso è per la musica, ci sono diverse soluzioni possibili, diversi strumenti. La vera creatività si colloca nello stupore. Impariamo ugualmente a controllare il nostro corpo, la nostra energia; questo implica la pratica di sport o fitness, essere attenti all’alimentazione, al sonno.

GL: Il repertorio del sassofono si è molto sviluppato grazie a lei e ad altri sassofonisti, ma cosa pensa delle trascrizioni?

CD: La musica è una materia mobile. Non ho idolatrie particolari verso un’epoca o uno stile. Sono abbastanza libero nelle mie scelte estetiche di repertorio, d’interpretazione o nei suggerimenti didattici. Non ho niente da tutelare in particolare, se non proprio uno spirito di ricerca; di ricerca della verità e autenticità in un modo o nell’altro e forse anche di professionismo. Il fatto di suonare molto, di maturare (diciamo invecchiare!) consente di liberare un sacco di tabù, rigidità, idee fatte. La vita insegna ad essere flessibili. Sviluppiamo il proprio gusto, apriamoci sempre di più a nuove prospettive (come improvvisare nelle cadenze). Prendiamo fiducia nelle nostre fragilità!

È vero che sono responsabile del fatto che i sassofonisti suonano molte trascrizioni. Perché ne ho avuto voglia e bisogno. Innanzitutto, penso che non basti ascoltare della musica ma bisogna anche suonarla e sentirla fisicamente per integrare quella cultura che il “sassofonista” non ha abbastanza. Alcuni, anche se eseguono pezzi di musica contemporanea molto bene, si sente che sono carenti culturalmente; eseguono semplicemente degli schemi, dei raggruppamenti; poiché suoniamo con la cultura che abbiamo, allo stesso modo si parla con la cultura che si ha.
Di seguito, ho avuto bisogno di suonare dei brani più lunghi per sviluppare la mia resistenza.

Il formato della maggior parte delle opere per sassofono è dagli 8 ai 12 minuti; Glazounov dura 13 minuti, la Sequenza di Berio 15 minuti; non si supera mai il quarto d’ora. Quando ho suonato, tempo fa, la sonata di Franck per violino è stata la prima volta che suonavo un pezzo di mezz’ora, bisogna imparare a gestire il tempo. 

L’anno scorso ho suonato una creazione di Aurélien Marion Gallois, Variations, opera musicale di 30 minuti: bisogna resistere! Non solo fisicamente ma anche nella preparazione del proprio lavoro. Non è la stessa cosa suonare 15 o 30 minuti.

Il problema è che ho talmente incoraggiato gli allievi a suonare delle trascrizioni che oggi sono obbligato di impedire ad alcuni allievi di suonare solo quello!

Suonare in pubblico delle trascrizioni non è una cosa negativa se c’è una programmazione intelligente, ma purché siano inserite con brani di repertorio in un vero concetto tematico. La trascrizione è benefica per i compositori; ascoltare le trascrizioni della loro musica può dar loro un accesso alla conoscenza acustica del nostro strumento; ma dedicare un’intera attività artistica alla trascrizione sarebbe grave come esaurire la foresta amazzonica! Dopo aver suonato molte volte questo bel repertorio.. cosa suoneranno le generazioni di musicisti che formeremo?

Resto, comunque, un sostenitore della musica originale: lavorare con i compositori, creare delle nuove cose è fantastico. Anche se risulta difficile per il pubblico, difficile da promuovere e chiede degli sforzi. Ovviamente, ognuno fa quello che vuole! In tutti i casi, chiedo ai miei allievi di suonare al massimo un terzo di trascrizioni, un terzo di repertorio e un terzo di creazioni. Questo, credo sia una buona base.

GL: Lei ha collaborato con molti compositori, qual è stato il suo rapporto con Luciano Berio?

CD: È stato un incontro folgorante per me, visto che abbiamo collaborato per solo dieci anni, dal 1993 fino alla sua morte nel 2003. Durante questi 10 anni ho lavorato molto con lui, come in particolare sullo sviluppo della Sequenza VIIb per sassofono soprano. Spesso abbiamo eseguito insieme la serie delle sequenze, dove io suonavo la IX; quella per clarinetto era poco suonata.
Avevamo un rapporto d’amicizia e di grande fiducia. Delle volte mi diceva «ah no, oggi era troppo calmo» altre volte, invece, suonavo come un matto, non rispettavo nessun tempo e lui era contento. Inoltre ha scritto per me la versione Chemin VII del Recit che è stata un’esperienza fantastica.
Ho suonato molto con lui, con ottime orchestre in Inghilterra, Germania, Francia e in tournèe dove suonavamo Canticum per quattro sassofoni, quattro clarinetti e otto voci.

Ci vedevamo spesso. Per esempio, gli chiesi una versione per ensemble di sassofoni del Chemin VII; mi disse: «non ho tempo», allora chiesi a Vincent (David) di aiutarmi. Vincent, ci ha lavorato molto e l’ho aiutato, revisionando il suo lavoro con Berio, che nei camerini modificava e correggeva aumentando il contesto acustico
dell’ensemble. Questo è trascrivere: ricreare! È stato davvero un “work in progress” ma alla fine l’arrangiamento è ottimo e anche Berio ne era contento.

L’ho visto comporre le sue ultime opere nelle quali ha utilizzato generosamente il sassofono; abbiamo fatto anche un bel dvd con una sua intervista, una sessione d’analisi e lezioni pubbliche. Il tutto è edito dal Conservatorio di Parigi.

Ho lavorato con molti compositori ma l’incontro con Gerard Grisey, per me, è stato molto importante e centrale nella mia formazione. La sua musica ha rivoluzionato la percezione spettrale del suono e non è conosciuto come merita. Abbiamo fatto insieme Anubis et Nout per sassofono basso, originale per clarinetto contrabasso; grazie a questo lavoro ha davvero imparato a “suonare” il sassofono. Questa trascrizione è indiretta perchè Grisey ha totalmente configurato l’opera al sassofono basso. Ecco, ancora un esempio di trascrizione intelligente!

Ha utilizzato molto i sassofoni; soprattutto nel suo ultimo pezzo “Quatre chants pour franchir le seuil” dove ci sono due sassofoni e che ritengo sia un capolavoro. Voleva i sax e li ha completamente imposti all’Ensemble Intercontemporaine che non era favorevole a reclutare un aggiunto; è così che va la vita musicale dove la dominante economica prende il passo su quella artistica. Grisey restò fermo. Quanti compositori hanno una personalità tale da poterselo permettere?

Ho lavorato molto anche con Duttileux, perché avrei voluto che mi scrivesse un pezzo. Mi diceva: «sapete signor Delangle non fa parte della mia cultura il sassofono, ho ascoltato tanti pezzi come Pierné, Schmitt o Desenclos ed ho paura che scrivendo per sassofono la mia musica somigli troppo a questi pezzi». Un giorno mi disse: «ho quasi messo un sassofono nel mio ultimo pezzo per Boston ma non è stato possibile, capite.. quando si suona in tournée costa caro chiamare un aggiunto»… È anche questa la storia della musica, rapporti umani e contingenti economici.
Takemitsu non ha scritto per me, ma ho fatto la trascrizione di Distance con Serge Bertocchi. Era fiero di questo lavoro; ho una sua lettera di elogi per la registrazione del mio cd Solitary saxophone; ma eravamo di generazioni troppo differenti ed è morto troppo presto senza che potessimo lavorare insieme.
Da giovane, suonavo la musica dei miei amici, compositori della mia generazione, Philippe Hurel, Frédéric Durieux, Philippe Leroux. Più tardi, diventando adulto ho suonato musiche di gente che aveva l’età di mio padre come Boulez, Berio, Betsy Jolas, Stockhausen che ha scritto per l’Ensemble di sassofoni del conservatorio di Parigi e di cui spesso ho suonato In Freundschaft; generazione di compositori nata negli anni ’25/‘30. Oggi suono musiche di compositori della generazione dei miei figli, nati a partire dagli anni ‘80..tre generazioni di compositori! Recentemente, ho commissionato un pezzo ad Alex Nante, un giovane compositore argentino e che suonerò a Buenos Aires a Novembre (2017).
È una grande gioia per me, mi entusiasma fargli promozione perché sono giovani poco conosciuti e  credo molto nel loro talento.

GL: Il sassofono è uno strumento relativamente giovane, qual è la sua visione rispetto ad altri legni come il flauto o il clarinetto?

CD: Il sassofono è uno strumento relativamente giovane e che ha sedotto rapidamente i compositori come strumento solista, nella musica da camera o inserito in piccole formazioni. In più abbiamo il vantaggio, contrariamente alla maggior parte degli strumenti a fiato, di avere la possibilità di progredire nei diversi registri, dal più acuto al più grave. Questo è un vero e proprio vantaggio!
Contrariamente ad altri strumenti, il sassofono ha degli aspetti molto diversi; soprattutto grazie all’utilizzazione dell’elettronica, ai riferimenti della musica popolare e alla prossimità con il jazz. Il jazz e le musiche popolari non fanno più paura e sicuramente non tutti i compositori hanno affinità con il jazz, che non è l’unico linguaggio del sassofono! D’altro canto, mi piace molto suonare con improvvisatori come Vincent Le Quang anche se non sono un jazzman.
La « trasversalità » oggi va di moda anche se si ascoltano molte musiche un po’ “kitch”, del falso jazz senza interesse che esce dal contesto dell’improvvisazione. Ma si possono comunque citare belle pagine come Hot di Donatoni o alcune opere di Philippe Hurel.
Lo stesso vale per gli interpreti. I sassofonisti classici che suonano jazz o i jazzman che suonano della musica scritta sono raramente convincenti. Una mentalità aperta non implica il «fare tutto» e una certa specializzazione può portare dei frutti sul piano artistico. Ciò detto, il ridicolo non uccide!

GL: Durante la sua carriera lei ha portato il sassofono verso nuovi orizzonti, cosa pensa dei giovani sassofonisti e della situazione « sassofonistica » moderna?

CD: Gli allievi hanno un progetto culturale, sanno come suonare un brano, hanno la tecnica per farlo e vogliono suonare in maniera “musicale”; basterebbe suonare e ascoltare. Posso far ascoltare solo quello che sento… è il problema della musica contemporanea: è spesso così difficile da assimilare che supera, a volte, le possibilità culturali del proprio sentire. L’interprete è come un bambino che legge un testo: la lettura è chiara eppure non è comprensibile! Questo diventa uno studio dimostrativo stupendo ma senza alcun senso. Fare una creazione è particolarmente interessante perché il compositore e gli interpreti stabiliscono il senso dell’opera in tempo reale, il senso “si rivela”. Capita spesso che il compositore cambi la concezione della sua opera ascoltando l’interprete... spesso siamo troppo intellettuali, bisognerebbe essere molto più attenti ad ascoltarsi! Soffio, muovo le dita, le orecchie ascoltano e modello qualcosa a partire da questo…è l’interpretazione! La questione dell’estetica è soggetta a questo.

GL: Nel 1994 lei ha intervistato Marcel Mule sulla « storia del vibrato ». Qual è il suo punto di vista sul vibrato al sassofono ?

CD: Sono conosciuto come un sassofonista che utilizza molto poco il vibrato, ma questo meraviglioso ornamento del suono continua a essere per me un fattore importante del suono e dell’espressione. In passato si diceva, giustamente, che per avere un bel vibrato bisognava avere prima un bel suono dritto. È giustissimo, ma oggi aggiungo, che per avere un bel suono dritto bisogna saper perfettamente padroneggiare i differenti stili di vibrato! Il vibrato deve essere utilizzato come un condimento, con parsimonia!
Gli allievi che non controllano bene il vibrato hanno spesso un suono molto povero e hanno più difficoltà a sviluppare i colori. Penso che sia un po’ la stessa cosa per i suoni multipli, gli overtone, il flatterzungue, dette anche tecniche « satellite ».
Noto spesso che, una lacuna in un determinato ambito, è determinata da una tecnica che non viene utilizzata. Il ruolo dell’insegnante è di aprire gli ambiti dell’esplorazione sonora. La nozione del “bel suono” non è di natura estetica, non risponde a codici ma a una nozione di pienezza, di diversità e di flessibilità.

La mia formazione è stata incompleta. Al conservatorio non ho studiato ne Villa-Lobos, ne Schmitt (la Légende), ne Milhaud, ne Debussy, ne Denisov! Forse non è così grave; esiste una formazione completa? Possiamo conoscere tutto? La musica è un fenomeno di creazione e un processo di sviluppo, di ampliamento. È dunque impossibile conoscere tutto. Tuttavia è importante offrire una diversità estetica, tecniche e situazioni musicali. Inevitabilmente alla fine di dieci o vent’anni di carriera, il contesto culturale sarà cambiato. Quello che è importante è di essere pronti alla versatilità, alla diversificazione dei modi di suonare, espressivi e persino dei materiali, nonché di adattarsi e di trovare con altri musicisti dei nuovi progetti.

Che sia Debussy, Denisov, Berio, Leroux o Posadas, è del sassofono che stiamo discutendo ma presentato in maniera diversa secondo lo stile dell’opera. Ci si adatta allo stile dell’opera, ma rimaniamo noi stessi con il sassofono. Chiedo agli allievi di ricercare questa pienezza di relazioni con lo strumento e di sviluppare un repertorio che sia, giorno dopo giorno, in sintonia con la loro identità di musicisti.

Margueritte Long ha formulato propositi molto interessanti; si è resa conto di essere stata formata secondo la tecnica del «suono perlato», tecnica dei clavicembalisti ma che non funziona per suonare Debussy, che trasforma il suonare pianistico grazie al “doppia fuga”. Il pianoforte di Brahms non è quello di Boulez; impariamo ad entrare nel mondo del compositore con le tecniche dalle quali esprime il suo stile. Per noi sassofonisti, non è una cosa facile perché non abbiamo molte opere dello stesso compositore. Solo qualche autore come Berio, Lauba, Leroux offrono un corpus sufficientemente ampio per capire il loro mondo espressivo e tecnico.

Philippe Leroux ha composto trent’anni di repertorio per sassofono, e tra i suoi primi pezzi: Phonie douce, l’Unique trait de pinceau, Conca Reatina (scritta di recente), Un lieu verdoyant avec voix e il quartetto di sassofoni, notiamo una evoluzione come quella dei compositori che un pianista dispone nella gran parte del suo repertorio.

GL: Come interprete di grande esperienza, quali sono i consigli che dà a un giovane sassofonista?

CD: “ Siate musicali nella vita tra amici e siate amici nella vita musicale…” Una conversazione, una relazione tra amici, tutto questo infatti è musica. Capire gli altri attraverso l’ascolto, tanto più quando si è originari di culture differenti…è molto facile tra italiani e francesi: noi siamo degli italiani che parlano francese!
Il sassofono è uno strumento molto seducente, che ha molto “charme”. Chi non ama il sax? È uno strumento popolare e molto amato. I sassofonisti sono spesso tentati dal successo facile e immediato tramite del repertorio leggero. È simile al cibo: il gusto per lo zucchero può soddisfare se non si dimentica la consistenza della grande diversità di gusti che si trovano in natura. Non bisogna dare ai nostri allievi solo il dessert…a buon mercato! Noi abbiamo la responsabilità di formare il gusto, non solamente di divertire; abbiamo una responsabilità di fronte alla storia. Senza Elisa Hall, senza Sigurd Rascher e molti altri quale sarebbe stato il nostro repertorio oggi?
Questo mi interessa, cioè di lasciare una materia musicale consistente che possa permettere ai giovani sassofonisti di andare ancora più lontano.

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Latina - Italia

Aprile 2017

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